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Scoprite "Sotto la pergola del bar che non c'è più"


Il paese degradava sul lago.

«Degradava» era la parola esatta, infatti da anni quel piccolo centro lacustre si andava spopolando. Le scuole avevano da tempo cessato di funzionare, i negozi, a poco a poco, stavano chiudendo tutti quanti. Prima la tabaccheria, poi il grande alimentari sulla piazza. Il giornalaio non era, semplicemente, più ritornato dalle ferie. Anche il vecchio bar, alla fine, si era dovuto arrendere. Dietro le sue vetrine impolverate, un tempo cariche di bonbons, cioccolate, pasticcini ed ogni altra sorta di delizia per i golosi, si vedevano ora soltanto due vecchi windsurf, gettati alla meno-peggio sul pavimento.

Muta testimone dei fasti passati, restava solo la grande pergola, con la rigogliosa vite americana dai colori cangianti.

L’aveva piantata la Teresa, la proprietaria del bar, quasi venti anni prima. Quando il paese era ancora vivo, per le strade si sentiva il gridare e il ridere dei bambini, e il bar era sempre gremito, d’estate e d’inverno.

Sotto quella pergola, una volta cresciuta la pianta, la Teresa pensava di sistemare dei tavolini nella bella stagione, quando la canicola infuriava e i vecchi potevano trovare riparo e frescura sotto le fronde. E così era stato. Per anni la pergola era diventata uno dei principali punti di ritrovo. Luogo d’appuntamento per le coppiette, di furibonde partite a «tresette» fra i pensionati (e qualche volta quasi ci scappava il morto), di riposo e frescura, in generale, per tutti gli abitanti.

La Teresa ci teneva a quella pianta di vite americana, la curava come una figlia, forse di più. La potava quando le brume dell’autunno iniziavano a lambire le case e l’umidità del lago avvolgeva tutto in un’atmosfera ovattata, fatata, mentre l’odore del mosto e della prima legna arsa si diffondeva per le calli e l’aria si faceva via via più frizzante. La copriva accuratamente, con dei teli di plastica, durante l’inverno, per proteggerla dalle gelate e impedire che la galaverna la ghermisse trasformandola in una scultura di ghiaccio.

Così, ogni primavera, tornava più forte di prima a proteggere, con le sue fronde, gli avventori del locale.

Era un’epoca felice: il lago procurava il cibo per tutti e c’era chi gettava le reti e le nasse, chi organizzava escursioni circumlacuali su un vecchio battello a vapore, capitato lì chissà come. Qualcuno aveva organizzato una scuola di vela, di sci nautico, attrezzato un tratto di spiaggia. Sembrava non dovesse finire mai, il benessere iniziato solo pochi anni prima, con la grande diga che aveva creato il lago e trasformato in stazione climatica quel piccolo paesino di collina, arroccato su un cucuzzolo.

Quando cominciò il declino? Non è possibile datarlo con esattezza. Le prime avvisaglie iniziarono all’epoca della grande crisi: a poco a poco gli abitanti cominciarono a trasferirsi altrove, in cerca di un lavoro. Partirono i giovani e i validi lasciando dietro di loro soltanto i vecchi. Non nacquero più bambini, la scuola chiuse i battenti e le strade divennero sempre più silenziose, sempre più deserte.

Poi fu la volta dei commercianti. Scomparsa la clientela, le vele furono ammainate, i pedalò venduti, gli ombrelloni ripiegati. Il vecchio battello a vapore terminò i suoi giorni affondato dall’incuria, con le gomene che si levavano dall’acqua come braccia imploranti, ancora attraccate alle bitte del molo numero tre.

I pesci, che sempre meno persone ormai cercavano di catturare, lo elessero loro rifugio.

Morivano i vecchi, senza che ci fosse più un ricambio. Le salme, molto spesso, erano accompagnate al cimitero soltanto dal prete. Poi andò via anche lui, troppa poca gente perché l’antica chiesa potesse continuare ad avere dignità parrocchiale. Il vescovo decise di mandare un sacerdote a dire messa, una sola volta, la domenica. In una navata laterale. Molte case furono vendute a gente «di fuori», che veniva a trascorrere qualche giorno, poi spariva.

Quando infine chiuse anche la Teresa, alla quale l’inverno aveva portato via il marito, tutti capirono che era arrivata la fine. Se ne andò così, in un giorno di maggio, caricando le sue poche cose su una vecchia giardinetta e gettando un ultimo sguardo alla sua pergola, la sua amata pergola. L’unica cosa che non poteva portarsi via.

I locali furono acquistati da un «foresto» che li adibì a deposito. Della pergola non gliene importava nulla, rimase lì e per qualche tempo fu ancora meta di anziani giocatori di «tresette» (sempre di più con il morto), ma non c’erano più i tavolini, non c’era più quel «movimento» tanto criticato ma, in fondo, piacevole. Non c’era più nemmeno la Teresa che, con un grande sorriso, portava le sambuche con «la mosca».

Infine se ne andarono anche loro, e sotto la pergola del bar che non c’è più, adesso, si danno convegno solo i gatti.

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