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Scoprite "I Misteri di Hatria


PROLOGO

Narrano le antiche leggende che, molti secoli prima della nascita di Roma, su di un’isola lontana, protetta da alte scogliere, sorgesse una meravigliosa città dai tetti d’oro e dalle mura di ambra. Sia l’isola che la città portavano il nome di Hatria, in onore del dio protettore Hatrano.

Edificata su di un pianoro in cima alle scogliere, la città comunicava con il porto attraverso una rete di gallerie lastricate d’oro, grandi a sufficienza da permettere il passaggio a quattro carri appaiati. Tali gallerie erano protette da sistema di chiuse in grado di allagarle in pochi istanti in caso di attacchi nemici.

Per questo nessuno, per secoli, era mai riuscito ad espugnare la città e ad impadronirsi delle sue ricchezze.

Gli hatrii, un tempo feroci guerrieri e pirati, si erano trasformati da generazioni in un popolo di esperti marinai e raffinati artigiani, dedito a fiorenti commerci e alle belle arti. Amanti della pittura, della scultura, della musica. Maestri nell’alta oreficeria.

Narrano le antiche leggende che il palazzo del re di Hatria, edificato accanto al tempio dedicato ad Hatrano, custodisse un enorme tesoro fatto di monili d’oro e d’argento, pietre preziose, ed altre immense ricchezze che le fornaci, i laboratori e le miniere di Hatria sfornavano continuamente, a cui si aggiungevano i proventi dei commerci con i popoli vicini.

Secondo i racconti, Hatria era, inoltre, uno dei più importanti crocevia del mercato dell’ambra in tutta l’area. E, soprattutto, nessuno, per mesi e mesi di viaggio, era in grado di lavorarla con la stessa abilità dei suoi artigiani.

Al dio Hatrano venivano dedicati quotidianamente sacrifici propiziatori e, ad ogni luna, si tenevano in suo onore grandi celebrazioni che duravano per tre soli – chiamate Hatriatiche - durante le quali il popolo si scatenava in canti, balli, giochi, libagioni e congiunzioni carnali, in un’atmosfera di perenne allegria e spensieratezza. E si credeva che Hatrano stesso, durante quelle feste, scendesse tra gli abitanti dell’isola sotto mentite spoglie, per unirsi alle fanciulle e ai fanciulli più belli.

La leggenda racconta che un giorno, nel decimo anno di regno del re Bardhanjor, il sovrano e i sacerdoti di Hatria, vollero onorare ancora di più il loro nume tutelare fondendo nella fornace più grande dell’isola un’enorme statua di Hatrano in oro purissimo, alta più di 150 cubiti[1]. La colossale scultura raffigurava il dio vestito con elmo, armatura e scudo d’ambra istoriati in argento. Al posto degli occhi furono incastonati due grandi zaffiri blu. Ai suoi piedi stava accucciato Agijel, il lupo a lui sacro.

Questo suscitò l’invidia e la rabbia degli altri dèi che già non amavano quella città, talmente bella e ricca da far sfigurare persino il loro regno. Scatenarono, quindi, contro Hatria tutte le forze della natura. Per tre giorni e tre notti la flagellarono con terremoti, maremoti, folgori. Fecero crollare le sue mura di ambra e i suoi tetti d’oro, affondarono le sue navi, devastarono i suoi campi, fecero straripare i suoi fiumi che allagarono le sue miniere. Il mare invase le gallerie che la collegavano al porto e fece saltare le chiuse, invadendo le vie della città mentre le scogliere si sbriciolavano.

Il quarto giorno tornò a splendere il sole su un mare piatto e calmo. Dell’isola di Hatria, della sua magnifica città e dei suoi abitanti, non era rimasta traccia.

[Da un frammento attribuito a Plinio il Vecchio]

Penisola italica, X secolo a.c., circa.

I tre lemboi avanzavano faticosamente sull’acqua, nonostante il mare fosse calmo. Erano tre diere[2] solitamente molto veloci e maneggevoli, ma la tempesta ne aveva diasalberate due, mentre la vela della terza pendeva lacera dagli stralli. Anche le murate portavano i segni della furia degli elementi e molti remi mancavano all’appello. Gli alloggiamenti degli scalmi, vuoti, rendevano i fianchi delle navi simili al sorriso sdentato di una vecchia.

Dal mascone, Argon guardava la striscia di terra all’orizzonte farsi sempre più vicina. Con l’aiuto di Hatrano, forse, i loro problemi stavano per finire.

Avevano appena lasciato Hatria con un carico di gioielli diretti in Liburnia quando la tempesta li aveva sorpresi. Per tre giorni e tre notti erano stati in balìa dei marosi, perdendo parte dell’equipaggio, del carico e subendo danni molto gravi alle imbarcazioni. Un miracolo, anzi, che non fossero colati tutti a picco.

Argon si voltò a guardare l’orizzonte alle sue spalle e sospirò. Forse sarebbe stato meglio finire in fondo al mare.

Quando la tempesta si era placata, dopo aver doverosamente ringraziato Hatrano, avevano cercato di far ritorno in porto. Ma dove un tempo si elevavano le grandi scogliere di Hatria, adesso c’era solo mare. La loro isola era scomparsa e con lei tutto il loro mondo, le loro case, le loro famiglie.

Della magnifica città erano rimasti solo pochi rottami alla deriva.

Pensò a Partina, sua figlia adolescente, che lo aveva salutato alla partenza, sulla banchina del porto. Lo aveva abbracciato forte e guardato con i suoi grandi e limpidi occhi azzurri.

«Papà, mi raccomando, abbi cura di te».

Le lacrime gli velarono gli occhi e annebbiarono per un istante la vista. “Abbi cura di te”… Strinse i pugni e represse rabbia e disperazione. Lui non era riuscito ad aver cura di lei. Forse, se l’avesse portata con sé in viaggio...

Adesso, della sua amatissima figlia, gli restavano soltanto le piccole sculture che modellava nella creta. Talmente particolari e belle che, in poco tempo, avevano trovato un mercato in molti porti. Ne aveva con sé due casse, ma non le avrebbe mai più vendute. Le avrebbe tenute sempre con sé in sua memoria.

Voltò le spalle all’orizzonte e si concentrò sulla costa che si avvicinava.

Stesso mare, alcune miglia più a sud.

Lumtor saltò a terra appena il rostro della bireme si incagliò aprendo una lunga ferita nella sabbia della spiaggia. Aiutò Partina e sua madre Lisina a calarsi dalla murata, mentre altri marinai e soldati balzavano sull’arenile assicurando lunghe gomene alle prue, con le quali avrebbero tirato in secca le navi.

Figlio di Jetosh, generale della guardia reale di Hatria, e a sua volta ufficiale, era riuscito ad imbarcarsi insieme alla sua famiglia e a quella della sua fidanzata sull’ultima nave che aveva lasciato il porto prima che i moli e le imbarcazioni rimaste alla fonda venissero spazzate via dalla furia degli elementi.

Delle dieci navi da guerra cariche di profughi, che erano partite dall’isola, ne erano rimaste cinque. Mancava all’appello anche quella comandata da suo fratello Laid. Guardò l’orizzonte piatto e pulito mentre sentiva l’angoscia salire. Capì che non lo avrebbe mai più riabbracciato. Represse le lacrime e, insieme alle due donne, raggiunse il punto in cui suo padre stava radunando le truppe rimaste. Quella sera, insieme ai ringraziamenti ad Hatrano, avrebbero dovuto celebrare anche molti commiati per i defunti.

Jetosh guardò il sole, calcolando l’ora e la posizione approssimativa in cui si trovavano. Erano sulla costa continentale a sud-ovest di Hatria, una zona selvaggia e quasi del tutto disabitata. Ordinò a sei soldati di dividersi in due pattuglie e andare in esplorazione, mentre il resto della truppa preparava il campo a ridosso delle navi.

Lumtor strinse a sé Partina, avevano perso tutto ma erano ancora insieme. Era riuscito a proteggerla come le aveva giurato sei mesi prima davanti alla statua di Askila la grande, protettrice degli amanti, quando si era inginocchiato per dichiararle il suo amore. E se avevano superato questa terribile prova, con l’aiuto di Askila e di Hatrano nulla e nessuno avrebbe potuto più separarli.

Guardò ancora una volta l’orizzonte e la baciò teneramente tra i capelli.

Le diere da carico gettarono l’ancora in una piccola insenatura e Argon e i suoi compagni poterono finalmente scendere a terra. Tenendosi per mano sulla spiaggia, innalzarono nuovamente un ringraziamento ad Hatrano, quindi si diedero da fare per accendere dei fuochi e preparare dei ripari per la notte che stava per scendere.

Argon guardò il disco arancione del sole che annegava lentamente nel mare nello stesso punto in cui, fino ad una manciata di ore prima, sorgeva Hatria e sentì un’onda di dolore esplodergli nel petto. Erano rimasti in pochi, ma lo spirito dei loro antenati era forte e, con l’aiuto di Hatrano, avrebbero ricostruito la loro città su quelle sponde, più grande e più bella di prima.

Accanto al fuoco, diverse miglia più a sud, Lumtor abbracciò Partina. In tutto si erano salvati in duecento tra uomini e donne. Tra loro c’erano soldati, marinai, artigiani, sacerdoti. Avrebbero rifondato Hatria su quella costa. La vita continuava.

Cinque anni dopo.

La diera attraccò al molo della piccola città portuale e i marinai si affrettarono a calare la passerella.

Argon scese a terra e si guardò intorno. Era la prima volta che visitava quel porto, ma molti mercanti passati per Hatria in quegli anni gli avevano assicurato che era un importante crocevia commerciale con un mercato molto frequentato, dove avrebbe potuto trovare delle ottime stoffe provenienti addirittura dall’oriente.

In pochi anni, sulle coste dove erano approdati da naufraghi, gli hatrii avevano costruito un villaggio che lentamente si stava espandendo e trasformando in una vera e propria città. L’avevano chiamata, ovviamente, Hatria, in ricordo della patria perduta, e lui – grazie al carico delle navi che erano riusciti a salvare – in poco tempo aveva rimesso in piedi la sua attività, era nuovamente un ricco mercante e stava costruendo, giorno dopo giorno, un vero e proprio piccolo impero. In riva al mare, non troppo distante dal porto della nuova Hatria, stava facendo costruire una splendida villa e il futuro che gli si apriva davanti sembrava pieno di incredibili e splendide opportunità.

Ma nonostante la fortuna gli sorridesse, Argon non era un uomo felice. Nel suo cuore custodiva sempre il dolore sordo per la perdita della sua famiglia. La tragica morte di sua moglie Lisina e della sua amatissima figlia Partina era una ferita che non smetteva di sanguinare. Nonostante fosse ancora giovanile e piacente, e non gli mancassero certo le possibilità, non si era risposato e viveva in compagnia dei suoi servi e degli amici che andavano a fargli visita.

La piazza del mercato era più grande di quanto si aspettasse, gremita di gente, di banchi e tendoni dai mille colori, traboccanti ogni genere di mercanzia: dalle derrate alimentari al bestiame, dai sandali alle pentole, dagli attrezzi per l’agricoltura alle sculture ornamentali. Tutto intorno si aprivano botteghe di gioiellieri, barbieri, profumieri, cerusici…

La donna a cui chiese indicazioni per la bottega di Aninis, il mercante di stoffe, lo informò che si trovava dal lato opposto della piazza. Con un sospiro si rassegnò a farsi strada nella calca, tenendo una mano sulla bisaccia perché – in quel mare di umanità – non mancavano certo i tagliaborse.

Ad un tratto si bloccò di colpo, perché qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Qualcosa di familiare che gli diede un tuffo al cuore. Su uno dei banchi erano allineate in bella mostra una serie di statuette di terracotta che lui conosceva benissimo. Erano in tutto e per tutto identiche a quelle che creava sua figlia Partina.

Ma come era possibile? Le uniche sopravvissute alla fine di Hatria le possedeva lui e non ne aveva mai ceduta una. Erano tutto ciò che gli restava della sua famiglia.

Si avvicinò per guardarle con maggiore attenzione… Sembravano proprio quelle di Partina. Lo stesso stile, gli stessi colori…

Ne prese una in mano per osservarla meglio.

«Bella, vero?» Lo apostrofò il venditore. «E costa anche poco! Perché non fai un bel regalo a tua moglie?»

«Sono vedovo, purtroppo». Rispose a mezza bocca, senza smettere di studiare la scultura. «Da dove vengono?»

Il mercante indicò il sud. «Da Hatria».

Argon sussultò. «Hatria?» Ripeté. «Ma Hatria è a nord», Disse indicando nella direzione opposta. «Io lo so bene, perché vengo proprio da lì».

Il venditore lo osservò perplesso. «Ne sei sicuro? Perché le prendo io stesso ad Hatria, ma a sud! A nemmeno un giorno di viaggio in quella direzione». Insistette, indicando nuovamente il meridione.

«Mi stai dicendo che c’è un’Hatria anche a sud?» Domandò Argon stupito.

«Puoi giurarci, amico, anche se è poco più che un villaggio. È nell’interno ma non molto distante dal mare. Ci sono capitato l’anno scorso per caso».

Il cuore di Argon ora batteva all’impazzata. «E hai trovato queste statuette? Dove?»

«Le fa una donna, una bella giovane, moglie di un soldato».

Argon sentiva vampate di calore salirgli dallo stomaco alla testa. Non poteva essere vero quello che stava pensando. «Me la puoi descrivere? Sai come si chiama?»

Il mercante scoppiò in una risata divertita. «Ma, secondo te, io non so come si chiamano gli artigiani dai quali mi rifornisco? Si chiama Partina e suo marito, il soldato, si chiama Lumtor! Ma cos’hai? Ti senti male?»

Argon sentiva cedere le gambe. Si sostenne aggrappandosi al banco e rischiando di rovesciarlo. Il venditore corse a sorreggerlo.

«Hei, amico mio, tranquillo… Va tutto bene… Soprattutto, non rompermi tutta la merce!»

«Quanto costa?»

«La statuetta? Pochi pezzi d’argento».

«No, quanto costa tutto quanto!»

Il mercante impallidì. «Mi stai prendendo in giro?»

«Parlo sul serio, ti compro tutto!» Confermò Argon riprendendosi dallo choc, mentre grosse lacrime di commozione gli rigavano il viso. «Tu non puoi saperlo, ma oggi mi hai restituito la vita». Trasse dalla bisaccia una manciata di monete d’oro. «La mia nave è in porto, è una diera da carico, il capitano si chiama Volsino. Fai trasportare tutto a bordo e digli di aspettare il mio ritorno. E adesso dimmi dove posso comprare un cavallo veloce».

CAPITOLO I

Venezia, mese di maggio.

Il Canal Grande scorreva lento e pigro, in netto contrasto con l’intenso traffico di gondole, vaporetti e altre imbarcazioni che solcavano la sua superficie. Dagli ampi finestroni del suo studio, al secondo piano dell’antico palazzo nobiliare a poche centinaia di metri da Rialto, Paolo Falier, armatore di una delle più importanti flotte mercantili e passeggeri italiane, osservava con disapprovazione la coloratissima e sgangherata folla di turisti di tutte le nazionalità che, simili a dannati in un girone dantesco, invadeva quotidianamente calli e campielli rendendo la città pressoché invivibile. Venezia, la sua Venezia, che era stata l’orgoglio e l’invidia del mondo, ormai era da anni ridotta ad una sorta di gigantesco, pacchiano luna park per mandrie di trogloditi ignoranti, dal cervello delle dimensioni di un’arachide, incapaci di distinguere un Canaletto da un Veronese ma, per converso, capacissimi di confondere i macchiaioli con McDonald e convinti che il Bellini fosse solo un aperitivo alla pesca. Forzati del tuttocompreso, che riducevano il “Gran Tour” ad un fast food, buoni soltanto a seminare cartacce e portare in giro i loro culi flaccidi e sovradimensionati.

Era un uomo anziano, anche se portava splendidamente i suoi settant’anni. Il fisico era ancora asciutto, la schiena dritta e il volto rugoso, perennemente abbronzato, era incorniciato da una criniera candida e folta che lo faceva sembrare leggermente più alto del suo metro e settanta centimetri.

Indossava un elegante completo tre pezzi gessato blu di Brioni sopra una camicia tagliata su misura color cilestrino con i polsini chiusi da una coppia di gemelli d’argento smaltato che riproducevano lo stemma della Falier Navigazione: uno scudo blu oltremare con un’ancora d’oro sormontata dal Corno Ducale[3] in rosso porpora. Una cravatta di Marinella, anch’essa blu oltremare, a piccoli pois bianchi completava l’abbigliamento. I piedi erano infilati in un paio di Church’s duilio nere, che – come tutte le scarpe che possedeva - venivano accuratamente lucidate dal suo maggiordomo tutte le mattine, anche quando non le indossava.

Distolse lo sguardo dal canale e si voltò verso il suo ospite: un cinquantenne brizzolato, alto e atletico, che indossava una giacca sahariana beige di lino, abbastanza stazzonata, sopra una camicia di cotone a righine blu, un paio di jeans delavé che avevano visto tempi migliori e un vecchio paio di scarponcini U.S. Roads con le suole ricavate da un battistrada automobilistico. Un modello di calzature che Falier non vedeva in giro da almeno vent’anni e che – a giudicare dalle condizioni generali del pellame – dovevano essere un autentico pezzo “vintage”.

«L’ho fatta chiamare, professor Marcòn, perché mi ha molto colpito il suo interessantissimo articolo sugli hatrii nell’ultimo numero di Archeo News». Esordì con la sua voce calma e profonda, appena venata di un retroaccento veneziano.

Ruggero Marcòn, professore associato di archeologia all’Università Ca’ Foscari sorrise e accarezzò istintivamente la vecchia borsa di cuoio che aveva in grembo. Era riuscito a pubblicare quell’articolo quasi per miracolo, su una rivista on line, dopo che era stato rifiutato da quasi tutte le pubblicazioni del settore. I più educati gli avevano dato del visionario, la maggior parte lo aveva definito un pazzo. Il preside della facoltà gli aveva riso in faccia.

«È solo una teoria. Penso ci sia un collegamento tra la città di Adria e quella di Atri, fondate più o meno nello stesso periodo, il decimo secolo avanti Cristo» Spiegò l’archeologo. «Entrambe si chiamavano originariamente Hatria, per entrambe si parla di origine illirica e uno degli dei del Pantheon illirico era il dio Hatrano. Ma, a quanto pare, nessuno finora aveva mai messo in relazione tra di loro tutti questi elementi…»

«Lei sì, professore, a quanto ho letto. Tuttavia mi sembra che la sua ipotesi vada ben oltre… Potrebbe anche aver fatto una scoperta rivoluzionaria, lo sa?»

«In realtà, l’unico mio merito è aver rintracciato un frammento attribuibile a Plinio il Vecchio, che racconta la leggenda di un’isola sprofondata nel mare. Una specie di Atlantide, ma nell’Adriatico».

«L’isola di Hatria dai tetti d’oro…» Citò Falier tornando ad osservare il Canal Grande dalla finestra.

«Precisamente… Ma, come le ripeto, è solo un’idea. In realtà non c’è nessuna prova che sia realmente esistita, anche se la leggenda riportata da Plinio si potrebbe ricollegare ad un’infinità di piccolissimi indizi finora ritenuti trascurabili».

L’anziano magnate si sedette alla massiccia scrivania liberty di noce intarsiato e piantò i profondi occhi azzurri in quelli color nocciola dell’archeologo. «Le piacerebbe verificare la sua teoria?» Domandò con calma, scandendo le parole. «Le piacerebbe se io le finanziassi una spedizione alla ricerca di Hatria?»

Ruggero Marcòn sentì il cuore perdere un colpo e, se non fosse stato seduto, probabilmente sarebbe caduto in terra per l’emozione. Paolo Falier gli stava offrendo l’occasione di tutta la sua vita, la possibilità di un riscatto da una carriera spesa prevalentemente chiuso in facoltà, ad assistere al trionfo degli altri, denigrato per le sue intuizioni mai prese in considerazione. Costretto ad un lavoro quasi da passacarte. «Sarebbe meraviglioso…» Rispose con un filo di voce.

«Deve sapere, professore, che io sono originario proprio di Adria e questa leggenda di cui lei ha trovato traccia negli scritti di Plinio, io l’avevo già sentita da bambino, sia pure con qualche comprensibile differenza. Mio nonno materno, Ernesto, che era un gran raccontatore, anche se – spesso e volentieri - di monate[4], me la narrava spesso. E diceva che, addirittura, la mia famiglia sarebbe una discendente diretta degli antichi hatrii e che il cognome di mia madre, Begatin, ne sarebbe la prova. Comprenderà che l’idea che le fiabe del nonno possano invece rivelarsi “Storia” mi affascina molto. E, come sa, sono abbastanza facoltoso da potermi permettere di finanziare questo, diciamo, capriccetto senile». Si rilassò abbandonandosi sullo schienale dell’ampia poltrona di pelle nera e sorrise al suo interlocutore. «Ebbene, professore, ci sta?»

«Signor Falier, sarei un pazzo a dire di no». Si illuminò l’archeologo.

«Allora siamo d’accordo». Il sorriso dell’armatore divenne radioso. «Beninteso, di tutto quello che scoprirà, riferirà a me e soltanto a me. Soprattutto se dovesse trovare traccia dei famosi tesori di Hatria o del leggendario Hatrano d’oro».

La gioia sfumò velocemente dagli occhi del professore, cosa che non sfuggì a Falier.

«Non si deve preoccupare». Si affrettò a rassicurarlo. «Non ho intenzione di sottrarre beni culturali alla collettività. Lei avrà la sua gloria e il mondo conoscerà tutti i misteri di Hatria, ammesso che riesca a scoprirli. Ma i reperti che dovesse riuscire a recuperare - sperando siano in acque internazionali, altrimenti la cosa si complicherebbe ulteriormente - non andranno a mettere polvere nei sotterranei di qualche museo di Stato o ad abbellire il salotto o il giardino di qualche magnaccia semianalfabeta con incarichi parlamentari o ministeriali. Sto acquisendo un altro palazzo, qui a Venezia, non molto distante da questo. Un palazzo attualmente in stato di semiabbandono che avevo intenzione di ristrutturare e trasformare in hotel di lusso. Ma se lei trova Hatria e i suoi tesori, io lo riconvertirò in museo: il “Museo Falier”. E lei ne sarà il direttore. Sempre che non abbia di meglio da fare!»

Ruggero Marcòn era quasi tramortito dalla fortuna che sembrava essergli precipitata addosso. Lui, da sempre considerato la Cenerentola degli archeologi veneziani, l’eterno “ragazzo di bottega”, forse aveva finalmente incontrato la sua “fata madrina”. «Quando cominciamo?» Chiese sporgendosi in avanti verso il suo benefattore.

«Per me, anche subito! Lasci i suoi dati bancari alla mia segretaria e le farò avere un congruo anticipo nel più breve tempo possibile. Anzi, farò di meglio, le assegnerò una carta di credito della società, come quelle che di solito concedo ai miei dirigenti. Ha un plafond quasi illimitato che sono sicuro lei impiegherà in maniera più costruttiva del mio ex direttore generale, che l’ha usata per fare il “Gran Tour” dei bordelli di Amsterdam». Falier soffocò una risata. «Povero idiota, pensava che non controllassi gli estratti-conto! Lei non va, abitualmente, a puttane con i soldi della ditta, vero?»

«N… no…» Rispose Marcòn avvampando di imbarazzo.

«Bene, allora è deciso! Passi domani pomeriggio e le farò trovare un contrattino pro-forma da firmare, tanto per giustificare il suo ingaggio e la sua nota-spese. Ovviamente dovrà tenermi al corrente di ogni suo spostamento e, soprattutto, di ogni seppur minimo sviluppo. Pretendo, anzi, esigo un rapporto perlomeno settimanale via e-mail. E se le servono imbarcazioni di qualsiasi tipo, anche complete di equipaggio, si ricordi che qui dentro non mancano!»

L’archeologo strinse istintivamente la borsa tra le mani. «Sono certo che converrà con me che, almeno in questa prima fase, è meglio non coinvolgere troppe persone nell’operazione. Se trapelasse qualcosa, ci troveremmo in mezzo ai piedi tutti i cacciatori di tesori del mondo».

«È vero, accidenti, lei ha perfettamente ragione!» Sorrise Falier, con uno sguardo ironico e l’espressione del bambino che è stato preso in castagna, quindi si alzò e tese la mano a Marcòn, facendogli chiaramente intuire che, almeno per il momento, il colloquio era finito. «Agisca come ritiene più opportuno, ma mi tenga costantemente informato. E mi dimostri che sto spendendo bene i miei soldi!»

Ruggero Marcòn uscì da Palazzo Falier camminando ad un metro da terra. Avrebbe voluto cantare e ballare come Gene Kelly o Fred Astaire in una vecchia commedia musicale, abbracciando sconosciuti per strada – meglio se sconosciute, magari giovani e carine, pensò – ma si sarebbe ritrovato, con ogni probabilità, a dover cercare Hatria nelle stanze del Centro di Igiene Mentale di Venezia. Cosa che non poteva assolutamente permettersi, dato che doveva assolutamente partire per Adria e poi per Atri, alla ricerca di indizi che gli suggerissero una qualsivoglia traccia per trovare la posizione dell’isola perduta. L’Adriatico è un mare interno, ma non è poi così tanto piccolo, non poteva permettersi di setacciarlo tutto, ci avrebbe impiegato una vita.

(Prosegue in libreria)

[1] Circa 87,6 metri.

[2] Navi biremi.

[3] Il copricapo dei Dogi veneziani, che richiama nella forma il berretto frigio indossato dai soldati bizantini e dal dux veneziano nei tempi più antichi.

[4] In dialetto veneto: boiate.

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